martedì 12 giugno 2012

Nella Storia



Cenni storici sul processo di unificazione Europeo

La costituzione di entità statali o parastatali che comprendessero l'intero territorio europeo può essere fatta risalire a periodi storici ben antecedenti rispetto alla fondazione dell'Unione europea. Il primo organismo di tale genere è certamente l'Impero Romano, che tuttavia non condivideva la medesima estensione geografica dell'Unione (essendo incentrato sul mar Mediterraneo); inoltre le conquiste territoriali romane dipendevano dalla potenza militare dell'Impero, e le province annesse dovevano sottostare a un'amministrazione statale fortemente centralizzata.
Esempi successivi includono l'Impero dei Franchi di Carlo Magno, il Sacro Romano Impero (una struttura meno omogenea, che era caratterizzata da un'amministrazione decentrata) e l'unione doganale che si venne a creare sotto il dominio di Napoleone dopo l'anno 1800.
Una delle prime proposte di riunificazione pacifica del continente sotto l'egida di un'unica istituzione sovranazionale fu avanzata dal pacifista Victor Hugo; a ogni modo, l'idea cominciò a prendere fortemente piede solamente dopo le due guerre mondiali, guidata dalla determinazione a completare rapidamente la ricostruzione dell'Europa ed eliminare l'eventualità di nuovi, futuri conflitti fra le sue nazioni. Esemplare in tal senso fu il Manifesto di Ventotene, redatto al confino da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli.
Furono fondamentalmente considerazioni di questo tipo a portare, nel 1951, la Germania dell'Ovest, la Francia, l'Italia e gli stati del Benelux a istituire la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio, entrata in vigore nel 1952.
La prima unione doganale fra paesi europei, la cosiddetta Comunità Economica Europea, fu istituita mediante il Trattato di Roma del 1957 e implementata nel 1958; successivamente rinominata Comunità europea, è stata uno dei "tre pilastri" dell'Unione europea, secondo i dettami del Trattato di Maastricht che ha introdotto l'unione politica, nei campi della Giustizia e affari interni e della Politica estera e di sicurezza comune.


 
Unità e scissione  sindacale nel dopoguerra
La prima esperienza unitaria ebbe inizio nel giugno del '44 con il Patto di Roma e la costituzione del sindacato unitario Cgil promosso da un accordo tra le componenti comunista, socialista e democristiana (prosecuzione dell'unità interclassista del CLN). L'orientamento della politica sindacale risultato da questa convergenza unitaria non tardò a manifestarsi con la ripresa dell'offensiva capitalistica: anche allora le "superiori esigenze" della ricostruzione e il ricatto della rottura dell'unità operavano come elemento di pressione nei confronti di una base combattiva e non disposta a subire passivamente le richieste della Confindustria, che, invece, la Cgil unitaria accolse coi contratti del '45 e '46. Assai prima che le "sinistre" fossero escluse dal governo, l'unità sindacale si andava svuotando per l'influenza esercitata dalla borghesia e dal suo corso iniziale di ripresa all'interno dell’"unitario" movimento operaio ufficiale attraverso la pressione sulle componenti sindacali dell'ex-CLN più direttamente legate alla logica capitalistica e per la contraria pressione, da parte della base operaia tradizionalmente più combattiva, per "contrattare", perlomeno, qualcosa di consistente, in termini di salari, norme di lavoro, occupazione e… "potere" in cambio della disponibilità a fare "il proprio dovere" sull'altare della ripresa stessa.
La rottura non tardò a venire nel '48 e all'inizio degli anni '50 nacquero la Cisl e la Uil. Il loro programma era caratterizzato chiaramente in senso filo-padronale e governativo (significativo, ad es., che uno degli elementi costitutivi del "nuovo sindacato" fosse un NO deciso allo "sciopero generale che costituisce un atto eversivo in quanto paralizza la vita del paese"). Le attuali posizioni di Cisl e Uil hanno un profondo ed inequivocabile radicamento nella loro tradizione: queste confederazioni nascono già "scissioniste" rispetto agli interessi del proletariato.
Gli anni '50 furono quindi complessivamente segnati da un clima di forte repressione antioperaia, dalla divisione sindacale (accordi separati Confindustria-Cisl e Uil) e dalla politica di rigida centralizzazione contrattuale che determinò la latitanza del sindacato dai luoghi di lavoro. Il giudizio operaio sui sindacati filopadronali si sostanziava intanto di sempre maggiori e significativi elementi; nel '62 gli operai di Torino espressero praticamente questo loro giudizio con l'assalto alla sede Uil di Piazza Statuto. Ma già nella seconda metà degli anni '60 iniziò una progressiva ricucitura dei rapporti fra le tre confederazioni, l'unità d'azione diventava un dato caratterizzante l'iniziativa sindacale.
Il veloce sviluppo economico e la grande ondata di lotta del '68-'69 incidevano sugli stessi sindacati, fin dentro alla Cisl e alla Uil, che, sotto la spinta delle categorie operaie, svilupparono ampi processi di ridefinizione e "radicalizzazione", non senza rotture e contraddizioni notevoli; e così sull'onda delle lotte realmente unitarie alla base si rideterminavano anche i rapporti fra le tre confederazioni; fino al punto di prospettare la possibilità di un’"unità organica" di costruire un sindacato unitario. I Consigli generali di Cgil, Cisl e Uil fissarono per il 1972 la data di scioglimento delle singole organizzazioni e per il 1973 il congresso di unificazione. Ma queste date rimasero - e non potevano che rimanere - sulla carta: la rappresentanza di interessi sociali distinti, le diverse strategie sindacali e politiche, le diverse tradizioni non rendevano possibile, neanche allora l'ambizioso progetto di unificazione. Al posto dell’"unità organica" nel '72 si formò la più modesta Federazione Unitaria, il processo di unità aveva raggiunto il suo culmine.
L'unità sindacale era nata su un ciclo economico in espansione che permetteva delle "concessioni" da parte del capitale; dal momento in cui, dalla metà degli anni '70 e in modo progressivamente più acuto negli anni '80, quel ciclo economico si è andato esaurendo e al posto delle "concessioni" è subentrato un attacco sempre più duro alla classe, quell'unità ha perso le sue basi di esistenza. Un conto infatti è seguire e "controllare" la radicalizzazione proletaria in periodi in cui è possibile una qualche forma di "redistribuzione dei redditi", altro è farlo in periodi in cui la borghesia, per salvaguardare e rilanciare il profitto, deve attaccare in tutti i campi il proletariato. E la crisi stessa rende via via impraticabile l'unità sindacale: interessi operai e interessi borghesi si divaricano, gli spazi di mediazione si riducono, riemergono le vecchie e mai scomparse differenze di fondo fra le confederazioni, si accentuano le divaricazioni. I sindacati storicamente filopadronali e filogovernativi si attrezzano organicamente a contrastare la possibilità di una radicalizzazione della classe, mentre le forze "operaio"-borghesi possono, in certi casi, essere spinte persino ad anticiparla e promuoverla, proprio per dar forza alla propria prospettiva "operaia" di gestione del sistema borghese (che è questione non solo ideologica, ma di basi sociali di riferimento, e supporto).
La vicenda della scala mobile ha rappresentato, in questo senso, un primo ben preciso indicatore. Cisl e Uil accettano "tranquillamente" il taglio della scala mobile, si schierano apertamente col fronte padronale e governativo e sabotano attivamente quello proletario. La Cgil, in quanto forza "operaio" -borghese, non può aderire all'intesa con il governo pena l'impossibilità di mantenere un rapporto con la sua base sociale, in quanto quell'accordo (senza concessioni!) non offre alcuna contropartita immediata e, anzi, impone il metodo del "decisionismo" governativo, rompendo con la prassi della "ricerca del consenso".


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